Il fatalismo turistico potrebbe procurarci dispiaceri

Il turismo, che una volta si chiamava, non so se più prosaicamente o più razionalmente industria del forestiero, appassiona il pubblico. Basta dare una toccatina al tasto che subito arrivano lettere a dozzine. Ora si badi: non tutti quelli che scrivono son gente del mestiere. Una parte dei mittenti è costituita da osservatori disinteressati, da turisti che hanno qualche esperienza da segnalare, da lettori curiosi del fenomeno. L’argomento avvince perché il turismo produce ricchezza sotto i nostri occhi, perché ciascuno di noi contribuisce a creare il clima benigno alla formazione di quella ricchezza, solo che in tranvai faccia da occasionale interprete allo straniero ignaro della nostra lingua, o gli indichi un ristorante a buon prezzo.

Il turista disorientato è la proiezione di noi stessi all’estero, non appena si esce dalla sfera d’influenza del portiere (…). Un lamento abbastanza generale è quello che da noi il turismo sia la cenerentola della politica. Non se n’ha una visione concreta, sintetica, unitaria. È un’industria, e nessuno di chi sta al vertice sembra rendersi conto che come tale occupa il primo posto nella graduatoria delle nostre esportazioni, perché fa entrare perché valuta pregiata senza che la merce, di cui è il corrispettivo, si muova per andare incontro al cliente.

Uno studioso del problema, il dott. Roberto De Gasperis di Roma, dopo aver ricordato che negli ultimi sei anni sono entrati in Italia oltre 44 milioni di visitatori, una massa pari alle popolazioni dell’Austria, Belgio, Danimarca, Svizzera, Olanda, Portogallo messe insieme, si arrischia in un tentativo di elencare la caterva dei prestatori d’opera ai quali ciascuno dei 44 milioni è ricorso per mangiare, dormire, farsi portare le valigie, pulire le scarpe, riempire di carburante il serbatoio, spostarsi con mezzi pubblici, cambiare denaro, acquistare «souvenirs d’Italie», eccetera, per concludere che lo Stato ha introitato dieci miliardi di lire solo di francobolli venduti a speditori di cartoline illustrate. Che fa questo amministratore di una cosi invidiabile sorgente di ricchezza, che ogni Paese vorrebbe poter aver in casa propria? Si limita, recriminano i più, ad incassare, e a nascondere gli introiti nelle cosiddette entrate invisibili. Al potenziamento, o anche soltanto al miglioramento delle attrezzature turistiche, andrebbero, si obietta, solo le briciole. Il che fa tavolozza per caricare le tinte. Allo Stato, insomma, si muove rimprovero di essere un po’ come quei vecchi avari, o inavveduti, che trascurano e lasciano decadere gli strumenti stessi delle loro rendite. Naturalmente chi dipinge il quadro così foscamente non tiene conto del fatto che la valuta spesa dal turista in Italia non è incassata dal Tesoro, ma semplicemente cambiata in lire, né più nè meno di come fa un cambiavalute, e che una parte cospicua di quei dollari, di quei franchi, di quelle sterline di quei marchi ritorna ai Paesi di origine attraverso le assegnazioni agli italiani che vanno in vacanza all’estero. C’è insomma un certo compenso (…).

Un’altra recriminazione che dalla periferia si ode spesso rivolgere al centro è quella che un lettore ha definito «fatalismo turistico». Con ciò si allude a una mentalità imbevuta di faciloneria e di presunzione piuttosto burocratica a dir vero secondo la quale il denaro speso in propaganda all’estero è buttato via «perché tanto i forestieri vengono lo stesso». Il che è affermazione alquanto incauta. Parte dal presupposto che all’estero tutti sappiano che Roma è stratificata da tre civiltà, che Venezia è l’unica città esclusivamente pedonale che esista al mondo, che certi scorci monumentali di Firenze sono gli stessi che Dante vedeva coi suoi occhi, e via discorrendo. È un presupposto fallace. Se il cinema ha arricchito di visioni plastiche la conoscenza del mondo, se a certi film esotici mancano soltanto gli odori delle sensazioni che determinano, l’ignoranza ancora prevale; e allora chi vende è sempre colui che sa meglio vantare la propria merce. D’altra parte il turismo, emanando dalla sfera delle esigenze voluttuarie, non si sottrae all’influenza della moda. Qualche anno fa non era forse in voga l’Austria? Chi non progetta oggi un viaggio in Spagna? E le isole britanniche? (…).

Non è poi impresa così smisurata accreditare un Paese sul mercato turistico; prima della guerra c’era egregiamente riuscita la Cecoslovacchia. Hanno quindi ragione quelli che dicono che non bisogna dormire sugli allori. La Penisola avrà sempre turisti, perché un viaggio in Italia rientra nell’esigenza della cultura umanistica media, ma potrebbe vedere un giorno grandemente ridotto il loro numero a profitto di altri Paesi che si sono « piazzati » con attrezzature nuove e una più razionale pubblicità.

Author: Cesco Tomaselli

Fonte: www.corriere.it; Corriere della Sera, 28 Aprile 1956.

Posted on 3 Agosto 2016 in viaggi

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Pierluigi Polignano. Economista del Turismo, fondatore di "Made in Puglia®"

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